Maltrattamenti in famiglia: l’eccessivo risparmio domestico.
Secondo la Corte di Cassazione (Sent. 190231/2023) è reato di maltrattamenti in famiglia la condotta del coniuge che nella gestione domestica impone all’altro uno stile di vita volto all’eccessivo risparmio, coartandone la volontà e la libertà con una ripetitività e pervasività tali da cagionare alla persona offesa uno stato di ansia e di frustrazione.
Quando ricorre il reato di maltrattamenti in famiglia
Il reato di maltrattamenti in famiglia, o meglio, il reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi, è disciplinato dall’art. 572 codice penale che punisce chiunque maltratta una persona della famiglia o convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte.
Si considera persona offesa dal reato il minore di anni diciotto che anche solo abbia assistito ai maltrattamenti anzidetti (art. 572 cp, ult. comma).
Pertanto, ai fini della realizzazione di siffatta fattispecie delittuosa assumono rilevanza le condotte degradanti, fisicamente o moralmente, reiterate nel tempo, volontariamente lesive dell’integrità fisica e/o psichica, della libertà o del decoro, delle persone che ne sono soggette.
Come si evince dal testo della norma, trattasi di un reato volto a punire i fenomeni di violenza in famiglia, tutelando l’integrità psico-fisica delle persone che ne fanno parte.
Proprio in riferimento alla nozione di contesto familiare occorre specificare l’evoluzione che la stessa ha avuto nel tempo, al fine dell’individuazione corretta dei soggetti qualificabili come persone offese dal reato.
Ed infatti, se l’individuazione della persona offesa dal reato una volta risentiva della limitazione imposta dal concetto restrittivo di famiglia, cui appartenevano solo i coniugi, i consanguinei, gli affini, e gli adottati o adottanti; ora, invece, grazie ad una sempre maggiore apertura del diritto al recepimento dei cambiamenti sociali, il concetto di famiglia assume un significato certamente più ampio di quello passato.
L’interpretazione estensiva del concetto di famiglia, oggi in vigore, fa sì che la persona offesa dal reato in esame possa coincidere con il soggetto che abbia un legame con l’artefice della condotta in ragione di qualsiasi rapporto di parentela, ovvero di un rapporto domestico, a patto che vi sia convivenza.
Un legame qualificato che ricorre anche nel caso della convivenza more uxorio.
Ai fini della configurazione dei maltrattamenti in famiglia è dunque fondamentale che tra le parti vi sia un rapporto duraturo o abituale nel momento in cui le condotte tipiche vengono compiute.
In caso di assenza di siffatta relazione tra le parti, i comportamenti reiterati lesivi dell’integrità psico-fisica, non potranno sussumersi nella fattispecie criminosa dei maltrattamenti in famiglia, bensì in quella di atti persecutori, come più volte ribadito dalla Cassazione (da ultimo, cfr. Cass. pen. n. 39532/2021).

Quali sono i reati che compiuti assieme integrano i maltrattamenti in famiglia
I reati di maltrattamenti in famiglia è definito da una norma dal contenuto generico, ma ormai per consolidata giurisprudenza è possibile individuare quali fattispecie di reato, ove compiute con ripetitività nel tempo ed assieme tra loro, possono integrare il reato in parola.
Si tratta di reati quali: ingiurie, percosse, atti persecutori e minacce, oltre alle lesioni personali colpose lievi o lievissime.
La pena per maltrattamenti in famiglia
La pena edittale prevista dall’art. 572 cp è quella della reclusione da tre a sette anni.
La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità (ex L. 104/1992), ovvero con uso delle armi.
Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni, in ogni caso, purché tali fattispecie di reato rappresentino conseguenze non volute o non concretamente prevedibili dal soggetto agente.
Al contrario, ove le lesioni personali gravi o gravissime o la morte siano state dal soggetto agente volute o concretamente prevedibili, si tratterà di reati ulteriori allo stesso ascrivibili che concorreranno con il delitto di maltrattamenti in famiglia.
Costituisce reato di maltrattamenti in famiglia imporre un eccessivo risparmio domestico
Come anticipato, il reato di maltrattamenti si realizza ove siano reiterate nel tempo condotte degradanti, fisicamente o moralmente, volontariamente lesive dell’integrità fisica e/o psichica, della libertà o del decoro, delle persone appartenenti ad un medesimo ambito familiare o para-familiare.
Nel novero delle condotte integranti il reato di maltrattamenti in famiglia, la Corte di Cassazione, con Sentenza n. 190231/2023, include anche quella posta in essere, come nel caso specifico, dal marito ai danni della moglie, volta a creare un clima di ossessivo controllo ed isolamento cui quest’ultima è costretta sin dall’inizio della convivenza ed aggravatosi dopo il matrimonio.
Espressione di tale condizione di sopraffazione e rigido controllo subito dalla moglie, anche il terrore che la stessa mostrava nei confronti del marito, allorquando l’imputato effettuava ripetute telefonate di controllo.
Allo stesso modo la Corte di Cassazione ha ritenuto condotta rilevante ai fini della configurazione del maltrattamento in famiglia anche quella consistente nella imposizione di un risparmio domestico eccessivamente rigido, tale da eliminare qualsivoglia libertà della donna nella gestione della casa.
Sul presupposto che le condotte debbano essere valutate tutte secondo criteri di pericolosità e idoneità a ledere il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice, sì limitando l’ambito di operatività della norma medesima solo genericamente formulata, la Corte ha ripercorso i principi cardine che devono regolare il rapporto di coniugio, mettendone in luce i casi c.d. di patologia del rapporto.
In particolare, l’art. 143 c.c. prevede che i coniugi col matrimonio assumano gli stessi diritti e doveri e che ciascuno contribuisca in proporzione alle proprie sostanze e alle proprie capacità di lavoro professionale o casalingo al benessere della famiglia.
È ben possibile, aggiunge la Corte, che i coniugi stabiliscano di avere un tenore di vita improntato al risparmio, anche rigoroso, ma è necessario che tale decisione sia condivisa.
L’imposizione, al contrario, di tale tenore di vita da parte di un coniuge sull’altro rende siffatta condotta illegittima, tanto più se afferente anche alle esigenze di vita quotidiana minimali.
Dunque, chiariscono i Giudici, lo stile di vita improntato al risparmio è del tutto lecito all’interno della famiglia, fintanto che sia prodotto della condivisione e accordo tra i coniugi.
Al contrario in assenza di accordo tra i coniugi, cui si aggiungono condotte volte al controllo esasperato della vittima, tali da causare in quest’ultima un vero e proprio stato di ansia, frustrazione e terrore, ricorrono gli estremi per l’incriminazione per il reato di maltrattamenti in famiglia.
È ciò che infatti accadeva nel caso in esame, in cui la donna veniva costretta a tale regime economico familiare, pur peraltro non essendo la coppia in ristrettezze economiche, con la determinazione da parte del marito di rigide regole riguardanti la spesa, la cura di sé e addirittura l’utilizzo di beni e servizi di primaria necessità, quali l’acqua (es. alla donna veniva consentita un’unica doccia a settimana).
A ciò si aggiunga la totale costrizione della donna al ritiro sociale, determinato dal clima di sudditanza in cui la stessa si trovava per soddisfare i desiderata de marito, evitando così condotte ulteriormente vessatorie da parte di quest’ultimo.
Ma vi è di più, infatti, ad aggravare la condotta già di per sé lesiva del decoro, dignità e libertà della moglie, anche le conseguenze in caso di trasgressione delle regole.
I rilievi dell’avvenuta contravvenzione delle regole venivano infatti accompagnati da espressioni ingiuriose e offensive, sempre più gravi, sino a sconfinare in giudizi negativi totalizzanti e annichilenti, come donna e come madre, e a veri e propri atti di percosse.
Secondo la Corte di Cassazione ha ben fatto la Corte d’Appello a sussumere i comportamenti dell’imputato, abituali, seriali, ingiustificatamente e gravemente vessatori, lesivi della dignità e del decoro della moglie, nel delitto di maltrattamenti in famiglia.

La lesione dell’integrità morale della persona offesa
La sentenza in esame mette in luce un dato fondamentale, ossia che le condotte rilevanti ai fini della commissione del reato di maltrattamenti siano anche quelle che non lasciano una traccia visibile sulla persona, rilevando autonomamente, rispetto alla lesione dell’integrità fisica, quella del patrimonio morale della persona offesa e delle relazioni familiari, che ingenera uno stato di frustrazione e avvilimento.
Si osserva dunque sempre con maggiore frequenza e fermezza il riconoscimento nelle aule giudiziarie della violenza psicologica reato come fattispecie autonomamente lesive dell’integrità della persona, tanto in ambito penale che civile ove il danno biologico, ormai da tempo, assume una connotazione “bipolare” tra danno fisico e danno psichico.